una foto del filosofo tedesco

Heidegger, filo-nazista mai pentito

“Hitler è stato un folle criminale ma gli Alleati sono peggio, non sanno pensare”

Difendendo il proprio maestro dalle accuse di nazismo, Friedrich-Wilhelm von Herrmann scrive le seguenti parole: «nel volume 97 della Gesamtausgabe relativo ai Quaderni neri dal 1942 al 1948, Heidegger annota la “malessenza irresponsabile con cui Hitler infuriò qui e là nell’Europa”, menziona la “follia criminale di Hitler”». Questo cita von Herrmann, ma se allarghiamo un po’ il contesto leggiamo: «Si guardi lo smarrito sgambettio con cui oggi le “potenze occidentali” fanno la politica europea. Alcune tra esse credono che viviamo ancora nel XVII secolo. La responsabilità di tale mancanza di pensieri - o è qualcosa di più: l’incapacità di pensare?” - supera di molte migliaia di gradi la malessenza irresponsabile con cui Hitler infuriò per l’Europa». A parte la malessenza (che sarebbe poi la Unwesen, altrimenti traducibile con «disordine», «confusione», «eccesso», al limite «casino»), la sostanza è che gli Alleati sono «molte migliaia di gradi» peggio di Hitler, cui certo si possono imputare «in parte cattivi fenomeni» (prosegue Heidegger), ma che, si deve immaginare (come nel paragone, in una famosa conferenza tenuta a Brema nel 1949, tra lo sterminio e l’agricoltura meccanizzata) sono nulla rispetto al peccato più grande, l’assenza di pensiero. Se Agostino ha enunciato un principio discutibile, «ama e fa’ quello che vuoi», Heidegger ne enuncia uno ancora più discutibile, «pensa e fa’ ciò che vuoi», che costituirebbe un salvacondotto per qualunque genocidio a venire, e la giustificazione di qualunque errore giacché, come Heidegger ama ripetere (e ovviamente lo fa anche in questi quaderni) «chi pensa grandemente erra grandemente».

Se volessimo dare un nome a questo auto-aiuto di Heidegger nel dopoguerra, e di cui i Quaderni sono la migliore testimonianza, potremmo ricorrere a un termine oggi di moda, «resilienza», che, nel caso specifico ma probabilmente anche in altri manifesta la propria natura bifronte, verso il bene e verso il male. Ciò è particolarmente visibile nelle note dei Quaderni Neri VI - IX, risalenti al periodo che dalla seconda metà del 1948 arriva al 1951, e che si possono leggere in molti modi. Confrontando le note (molto più ermetiche e aforistiche di quelle dei periodi precedenti) con la storia esterna, che non è più quella dell’ascesa e del crollo del Terzo Reich ma quello della fine della occupazione alleata e della nascita della Repubblica Federale Tedesca. Constatando che i punti fermi del suo pensiero, compreso l’antisemitismo e l’adesione al nazismo declassata a semplice ingenuità, non mutano in una riflessione ostinatamente uguale a sé stessa (non si pretende certo che Heidegger chieda perdono a chicchessia, soprattutto in pagine private, ma è difficile non constatare che nemmeno una guerra, e che guerra, gli fa cambiare una sola idea). Cercando le novità o gli sviluppi di un pensiero che, come Heidegger ribadisce continuamente, ora con sconforto ora con orgoglio, è rimasto fermo a Essere e tempo, e sta cercando ormai da anni una svolta, una evoluzione o, come Heidegger ama dire, un «nuovo inizio».

Lascio da parte queste piste per concentrarmi su quella che Heidegger chiamerebbe «questione essenziale», ossia il pensiero, la cui assenza, come abbiamo visto nel brano citato in apertura così come in moltissimi altri, è una mancanza più grave dell’Olocausto. Il pensiero è una attività speciale, non estranea al dubbio iperbolico che, spingendosi molto al di là del demone maligno che inganna il Cogito facendogli credere di avere un corpo di vetro o di essere nel fuoco, lo espone all’inganno più grande, quello di credere di pensare, mentre non pensa. Riscrivendo in piena serietà i versi ironici di Heine, Heidegger rivendica ai tedeschi il regno dei cieli, mentre la sovranità su tutto il resto va ai vincitori. Questo orgoglio nella caduta non è una scelta obbligata, basti pensare alla posizione, più ambigua, più mistificatoria e millantatoria, ma anche più disponibile a riconoscere l’autorità del verdetto della storia, di Malaparte, e si avvicina piuttosto alla posizione di von Salomon o di Jünger, più inclini a vedere nella caduta il contestabile esito di un destino cinico e baro. Tipicamente heideggeriana, invece, è la condanna di quello che ai suoi occhi è il collaborazionismo degli intellettuali che si mettono al servizio degli Alleati. Sopra tutti, Jaspers, che pure testimonierà a vantaggio di Heidegger permettendone il ritorno all’insegnamento. Trattato come un imbecille e un superficiale (ma questo è immancabilmente il giudizio di Heidegger, prima e dopo la guerra), Jaspers è prima di tutto un opportunista che si avvale della simpatia delle forze di occupazione per imporre una filosofia di poco conto che, sotto il titolo del «dialogo» sarebbe chiamata a mettere d’accordo tutti. Poi il cristianesimo, che si rivela l’obiettivo polemico più costante di Heidegger, credo per lo stesso motivo di Nietzsche: entrambi volevano fondare una religione alternativa (questo è ciò che Heidegger chiama «pensiero» contrapponendolo a «filosofia»), dunque vedevano il vecchio credo come l’avversario da battere. Soprattutto quando, come negli anni in cui scrive Heidegger, il cristianesimo è diventato forma di governo con la CDU e il suo leader Konrad Adenauer primo cancelliere della rinata repubblica.

Dunque non solo, come leggiamo nei Taccuini, «Non si è ancora nemmeno incominciato a riflettere su Essere e tempo» ma, quel che (forse) è peggio, non abbiamo ancora incominciato a pensare, come Heidegger dichiarerà in Che cosa significa pensare? Di fronte a una simile iperbole viene spontaneo chiedersi: e, allora, che cosa abbiamo fatto sin qui? Immaginiamo qualcuno che ci dicesse che sinora non abbiamo ancora incominciato a mangiare, o a bere, o a dormire. Sarebbe con ogni verosimiglianza un albergatore che ci promette «una nuova esperienza del benessere». O qualcuno che dicesse «finora non abbiamo ancora incominciato a vivere»: sarebbe, anche qui, un personal trainer che ci insegna come controllare le nostre emozioni e vivere in armonia con noi stessi. L’iperbole heideggeriana del pensiero, matrice di uno stile filosofico che ancora oggi ha degli esempi: si pensi a Byung-chul Han, che declina l’avveniristico «non abbiamo ancora incominciato a» con un «abbiamo smesso di» (far sesso, morire, dialogare, provare dolore - magari fosse vero!). Come dimostra il suo successo, l’iperbole è il contrario di ciò che nominalmente enuncia, e si rivela un sistema per accattivarsi lettori di bocca buona. E che dietro all’esoterico e sloganistico «Pensare: muovere il futuro sulle vie» ci sia una formula non diversa da quella che valorizza, oggi, in manager di vari ambiti, «la visione», «la filosofia», «la creatività». E in effetti si ha una impressione di déjà vu quando si leggono frasi come: «La somma del mio pensiero. Essa consiste nel semplice passo dal pensiero che rappresenta al pensiero che muove sulle vie». Dove l’ho letto? Nella pubblicità di una spa in Alto Adige? Possibilissimo, ma altrettanto possibile che il copywriter avesse letto Heidegger all’università, proprio come Kellyanne Conway, la portavoce di Trump, aveva orecchiato all’università, in qualche corso sul French Thought, l’idea di «fatti alternativi».

Quanto a sé, però, Heidegger non esercita alcun dubbio metodico, lui sì che pensa. Gli altri no, e si parla di filosofi come appunto Jaspers, uno spacciatore di visioni del mondo; Sartre, un plagiario; Husserl, un mezzo riuscito, dunque anche un mezzo fallito. Di fronte a questa terra desolata, come Zarathustra, Heidegger avverte come una dura necessità il dover abbandonare l’altezza del pensiero per scendere a predicare nella città di Vacca Pezzata, piena di «parlatori e scrittorucoli». Intanto, però, lo Zarathustra della Foresta Nera pubblica molto più che nell’anteguerra, e discorre lungamente delle proprie pubblicazioni, del loro esito, della presa e della ricezione che avranno: la Lettera sull’umanismo del 1947, Il sentiero di campagna, del 1949 e, nello stesso anno le conferenze di Brema del 1949 (che saranno pubblicate più tardi), Sentieri interrotti e Il linguaggio nel 1950, Introduzione alla metafisica, 1953, che Cosa significa pensare?, pubblicato nel 1954 in concomitanza con i Saggi e discorsi. Sorprende, ma fino a un certo punto, nel tono di denegazione caratteristico di Heidegger, che un uomo che si dichiara così schivo rispetto alla opinione pubblica si impegni in una così ampia attività di pubblicazione, e segua con tanto interesse le recensioni delle sue opere (come i quaderni neri dimostrano). Ma, ripeto, stupisce solo fino a un certo punto, perché il pensatore originario, essenziale e autentico sta semplicemente incarnando uno stereotipo middlebrow nel momento in cui esalta «la potenza del silenzio».

Ogni tanto, leggendo, vien da pensare che - contrariamente alla coincidenza tra scrittura e lotta con l’angelo che Heidegger vuole accreditare come cornice di questi suoi appunti - in effetti scriva per semplice abitudine meccanica e per esercitare le dita, e che di pagine simili se ne potrebbero generare centomila in pochi giorni, anzi, in pochi minuti, se si disponesse di un buon algoritmo e di un computer adeguato. Come per Céline, è difficile disfarsi dell’uomo e conservare solo l’opera, ma diversamente da Céline l’essenziale per la filosofia Heidegger lo aveva dato nel 1927, prima del nazismo e prima di un crepuscolo durato mezzo secolo. Che la testimonianza di questo crepuscolo, anche nelle sue parti più incresciose, sia ora pubblicata, e che l’autore di un solo libro sia diventato l’uomo di 102 libri (tanti, a oggi, i volumi apparsi nelle opere complete), sembra la dimostrazione di un «pensiero calcolante» che, come è giusto che sia, riesce a trasformare in industria ogni pensiero che è, o si pretende, poetante.